Il castello benedetto

C’era una volta, in un punto
del Vallese Occidentale,
un castello medievale
allor pressoché defunto.

Il padrone del castello
era un oumo rovinato,
marchese di San Minato
e niente di Sabadello.

Una sera assai oscura,
da un lussuoso automobile
scese là l’augusto nobile
per spiar senza paura.

Il sindaco del villaggio,
Giuseppino Vilarone,
corse come un mascalzone
disposto a rendergli omaggio.

Salutatisi a vicenda,
seppe intrecciar don Gioacchino
un discorso molto fino
con una bugia orrenda:

“Le tre ali del mio scudo
non si prestano a volare,
e vado per terra e mare
povero, misero, ignudo.”

“Se non invita Minerva,
vi assicuro, signor mio,
che stanotte pago io
un pingue pranzo sull’erba.”

Dopo l’agape, e accese
le candele di rigore,
sotto parola d’onore
disse l’astuto marchese:

“Ecco: tutto quanto vedi,
coi campi che sono intorno,
sarà tuo qualche giorno
se ti prosterni ai miei piedi.”

Benché, tranne fiamme azzurre,
Beppe non vedesse nulla,
come fosse una fanciulla
si lasciò affatto sedurre.

Quale castello di carte,
cadde il vassallo in ginocchi,
chinò il capo e chiuse gli occhi
con somma perizia ed arte.

“Ora”, propose il notabile,
“possiamo giocare almeno
un po’ a rubare terreno,
e vediam chi è piú abile.”

Il coltello marchesale
guadagnava tanto suolo
che il cattivo prese il volo
prima di finire male.

“Ahimè! Sono qua venuto”,
diceva Beppe nel loto,
“leggero e allegro con moto,
ma non troppo il ricevuto.”

Mentre tornava prostrato
ed andante piano piano,
il Vilarone villano
si doleva del suo fato:

“Mi griderano: ‘Va fuori!’
vedendo che in questo affare
devono sempre pagare
i Busti pei peccatori.”